Articolo originariamente pubblicato da Fondi&Sicav

È sicuramente una delle reti nazionali di distribuzione di prodotti finanziari più piccole, ma a Copernico Sim non manca certamente un forte senso di orgoglio.

Ogni volta che si parla con un collaboratore della società, esce immediatamente il discorso che si tratta di una delle pochissime strutture che opera davvero senza conflitto di interessi, visto che non ha prodotti propri, che i consulenti si muovono con la massima indipendenza e non ci sono obiettivi di vendita fissati dai vertici. In pratica,  la diversità è esibita con estrema convinzione, con orgoglio, appunto.

A parlarne è Gianluca Scelzo, consigliere delegato di Copernico sim e seconda generazione a operare nella società.

Come è andato un anno come il 2023 che è stato oggettivamente difficile per tutti? Il forte passaggio dal gestito all’amministrato non ha molto aiutato…

«Il 2022 è stato veramente difficile, mentre il 2023 è stato più altalenante e, alla fine, non è stato un anno malvagio ed è finito bene: abbiamo retto l’urto, sia in termini di raccolta, sia di masse,  e siamo abbastanza contenti. Ovviamente,  speravamo in qualcosa di più. Abbiamo registrato anche noi un passaggio dal risparmio gestito all’amministrato, forse anche dovuto a un effetto “moda Btp”, ma abbiamo lavorato con molta forza sulla consulenza personalizzata e lo spostamento sui bond non è stato così importante: c’è stata sicuramente una crescita, ma non è stato un numero che ha cambiato più di tanto l’anno».

Quindi, tutto bene?

«Abbiamo avuto un problema davvero fastidioso, per usare un eufemismo, con Kronos (Eurovita, per intenderci). Noi avevamo solo le unit, che non dovevano essere colpite dalla vicenda Eurovita, ma ci siamo trovati all’interno di questa grana nella parte delle gestioni separate, fatto che ha coinvolto tutto il sistema. Noi non avevamo un euro nelle gestioni separate di Eurovita, però avevamo una fetta importante dentro le unit: averle bloccate è stata una mossa prudenziale da parte delle autorità di vigilanza, ma ha creato una serie di contraccolpi abbastanza importanti in termini di fiducia nel sistema assicurativo da parte della clientela che è rimasta infastidita da questa operazione. Per fortuna, nell’ultimo trimestre è stato tolto il blocco, però abbiamo passato un anno nel quale fare raccolta, soprattutto in ambito assicurativo, era pressoché impossibile: anche per questo motivo c’è stato un afflusso verso l’amministrato. Devo però dire che nei primi mesi del 2024 la parte di gestito sta tornando».

Lei parla di moda del Btp: non sembra, però, una decisione così irrazionale puntare su un titolo che garantisce il 4%.

«Sicuramente non lo è, soprattutto per coloro che l’hanno preso nel momento migliore e, quindi, con i rendimenti più alti. Dobbiamo però attenderci un abbassamento dei tassi: per chi l’ha fatto lo scorso anno può avere molto senso, per chi lo farà nei prossimi mesi potrebbe averne molto meno. C’è comunque un aspetto importantissimo da valutare: è vero che rende il 4%, ma il tasso di inflazione reale esattamente qual è? E soprattutto per quanto durerà? Queste sono secondo noi le domande che bisogna porsi. In conclusione, bene i Btp, ma attenzione a mettere tutto in Btp, perché il concetto di diversificazione è spesso davvero troppo limitato. E poi non va dimenticato che l’Italia deve rinegoziare, per di più nel periodo estivo, 400 miliardi di euro, che non sono pochi. E se alcune aste andassero male, le conseguenze non sarebbero lievi. Quindi, in ottica di diversificazione, si tratta di uno strumento buono, anche perché (lo dico con forza) l’Italia non fallirà. Comunque, bisogna ricordare che,  mentre con il Btp si prendeva il 4%, c’era un azionario che rendeva in certi casi il 30-40%: ciò è l’ennesima dimostrazione che bisogna considerare tutti gli strumenti finanziari».

Quindi lei ha una visione positiva sull’Italia…

«Sì e uno degli argomenti che mi scaldano il cuore è rappresentato dalle aziende del nostro Paese. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e sulle Pmi e nella Costituzione dovrebbe essere davvero scritto così. Ci sono società che sono veri e propri gioielli quotati a niente. A questo punto è giusto chiedersi perché arrivano i francesi e ci comprano con quattro monete. La risposta, secondo me, è che non c’è da parte politica la volontà di fare crescere, anche come capitalizzazione, le imprese. Non si è creato un percorso virtuoso nel quale le aziende riescano a espandersi e, invece che essere acquisite da compratori esteri, possano essere loro ad andare a fare shopping fuori dai confini. Per fare un esempio, se le banche avessero una percentuale degli utili detassata per andare a comprare quote delle Pmi, si potrebbe creare un mercato virtuoso che non vediamo da decenni. Questi extra-utili delle banche, invece che produrre un’extratassazione che non serve a nulla, potrebbero dare una grande spinta al sistema industriale. Per le Pmi italiane probabilmente, basterebbe un quinto di ciò che è stato speso per il superbonus».

A proposito di moda, per voi l’intelligenza artificiale è una delle tante mode che abbiamo visto sui mercati o è qualcosa che davvero si affermerà? Voi che cosa state consigliando ai vostri investitori: di mettere un chip nell’intelligenza artificiale adesso oppure di stare a guardare?

«L’Ai è certamente un driver dei prossimi anni; mi sento di dirlo in maniera decisa, per un motivo che si differenzia molto rispetto ad altre mode: l’intelligenza artificiale ha applicazioni su tutto. Nel momento in cui una persona entra in una gioielleria, da quel giorno, grazie alla geolocalizzazione, comincerà a ricevere pubblicità di gioielli e di gioiellerie; se entra in un negozio di abbigliamento intimo per fare un regalo a sua moglie, verrà bombardato costantemente di offerte di oggetti per donna e così via. Tutto ciò è una parte dell’intelligenza artificiale. Certo, tanti aspetti del mondo del lavoro saranno modificati dall’Ai: temo, e lo dico con all’alba di una rivoluzione industriale, esattamente come lo è stata internet. L’Ai potrà essere applicata pressoché a tutto. Inoltre, bisognerà anche capire come bloccarla in alcune situazioni, perché è una jungla e la privacy non esiste con l’Ai, a meno che non si decida di non avere un telefono o un computer. Su questa base, le dinamiche dell’intelligenza artificiale sono infinite: le modifiche nelle aziende verranno fatte in un secondo da una macchina. Tutto ciò avrà un impatto incredibile sul mondo del lavoro, sulla tecnologia. No, non credo che si tratti di una moda, ha troppe applicazioni per essere una moda. Quindi ai nostri risparmiatori consigliamo di investirvi almeno un chip».

 

Dove metterlo questo chip? In chi produce intelligenza artificiale o in chi sarà avvantaggiato dall’Ai?

«Direi in fondi che hanno entrambe le caratteristiche. Ci sono strumenti che si stanno specializzando solo su aziende che investono direttamente o indirettamente sull’Ai: quindi anche
l’indiretto può avere alcuni vantaggi. L’Ai svilupperà sempre più dinamiche che renderanno sempre meno utili tanti lavori che si fanno oggi, nelle banche, in campo medico, scientifico e in tanti altri. Per esempio, se devo pensare a che cosa succederà tra 100 anni, credo che sarà sempre di più una macchina a fare un’operazione chirurgica e non il chirurgo. Questo trend può anche essere preoccupante, ma credo che non si possa tornare più indietro».

 

Dove metterlo questo chip? In chi produce intelligenza artificiale o in chi sarà avvantaggiato dall’Ai?

«Direi in fondi che hanno entrambe le caratteristiche. Ci sono strumenti che si stanno specializzando solo su aziende che investono direttamente o indirettamente sull’Ai: quindi anche
l’indiretto può avere alcuni vantaggi. L’Ai svilupperà sempre più dinamiche che renderanno sempre meno utili tanti lavori che si fanno oggi, nelle banche, in campo medico, scientifico e in tanti altri. Per esempio, se devo pensare a che cosa succederà tra 100 anni, credo che sarà sempre di più una macchina a fare un’operazione chirurgica e non il chirurgo. Questo trend può anche essere preoccupante, ma credo che non si possa tornare più indietro».

 

Questo trend, però, offre praterie immense a chi offre un servizio che sia davvero personalizzato. Forse si perderanno posti di lavoro, ma si guadagneranno impieghi che puntano sulla qualità. Anche nella consulenza finanziaria.

«Io credo che un servizio di qualità non sia mai pareggiabile. Se io mi trovo bene da un negoziante di scarpe, perché ha un prodotto di ottima qualità, mi conosce, sa come mi chiamo, io continuerò ad andare da lui. Anche se mi offrono le stesse scarpe su internet a meno soldi, continuo a utilizzarlo, perché ho un servizio che internet non mi dà. La boutique, non solo continuerà a esistere, ma addirittura avrà la possibilità di crescere. Dal nostro punto di vista, noi siamo certi che le persone non hanno bisogno di interfacciarsi con macchinari, ma dell’approccio umano. Su questo piano è molto importante il ruolo del consulente finanziario, perché, non essendo una macchina, non è indirizzato solo al rendimento, ma a capire quali sono le dinamiche delle persone. Io passo una gran parte del mio tempo a risolvere beghe familiari, tra moglie e marito, tra padri e figli, tra nonni e nipoti ed è un aspetto fondamentale della mia professione, perché la gente spesso perde di vista i veri obiettivi: questo lavoro una macchina non potrà mai farlo. La macchina non fa riflettere le persone: può solo dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, ma non può darti la carezza o il calcio nel sedere se necessario. Il nostro ruolo si svolge in un mercato che è davvero una prateria e ci si trova di fronte uno spazio che è infinito. Noi stiamo cercando di convincere molti giovani ad approcciarsi a questa professione. I consulenti finanziari in Italia sono 50 mila circa, dei quali operano davvero circa 30 mila: tutte queste persone hanno un bacino d’utenza che è praticamente infinito. Sono 60 milioni di italiani per 30 mila consulenti. Non dico che è lavorare senza concorrenza, ma poco ci manca. La concorrenza è costituita dalle banche che stanno operando in modo che gli impiegati non abbiano più contatto con il cliente».

 

In che cosa sta la vostra vera differenza?

«Il consulente finanziario è cointeressato con l’investitore: più guadagna il cliente, più guadagna il consulente. Questo nostro modus operandi, che in Italia è sviluppato da pochissime aziende, secondo noi è clamoroso, perché il ruolo del bancario andrà a morire, mentre quello del consulente specializzato no. E qui si possono creare scenari importantissimi. Soprattutto lo
notiamo nel passaggio generazionale, perché il nonno non cambia e continua ad andare in banca, ma il nipote, quando comincia ad avere qualche soldino, sicuramente è diverso, si guarda intorno e tanti non sono affatto disponibili a lavorare con qualcuno che non conoscono, cioè una macchina. Prima facevo l’esempio del chirurgo, che ha forti possibilità di uscire dal mercato, ma il medico di famiglia, che ha un rapporto personale con il paziente, no. Questo modo di lavorare può avere un’espansione senza precedenti».

 

Pensate di espandervi? Siete una piccola società in un mercato di giganti. Credete che piccolo sia bello o avete un programma di sviluppo?

«Piccolo è bello, sì, ma fino a un certo punto. Il nostro punto di forza (magari anche il nostro limite) è di non volere mettere in vendita i nostri valori. L’indipendenza da gruppi bancari e assicurativi, il multibrand puro e lasciare la totale indipendenza ai nostri consulenti non sono negoziabili. Certamente, abbiamo voglia di crescere: ci eravamo quotati anche con la speranza di espanderci. Poi, purtroppo, lo abbiamo fatto in un momento che più sbagliato di così non si poteva, visto che siamo entrati a Piazza Affari nel secondo semestre del 2019, cioè poco prima del Covid, con tutte le ripercussioni che tutto ciò ha avuto. Inoltre, circa nello stesso periodo, sono stati bloccati i Pir, con tutti i problemi che ne sono derivati. Però ci siamo posizionati bene. Noi abbiamo indubbiamente alcune difficoltà a farci conoscere, sia dai consulenti finanziari, sia dai clienti. Sui primi abbiamo una dinamica che ci differenzia molto dalle grandi reti: per esempio, noi non paghiamo l’ingaggio, perché, se lo pagassimo, dovremmo spingere determinati prodotti presso i clienti e, quindi, ci rimangeremmo uno dei nostri valori. Noi siamo una società che ha dinamiche molto diverse dal resto del mercato, ma abbiamo gli stessi prodotti delle grandi reti: per quanto riguarda i fondi, per esempio, lavoriamo con una quarantina di società che sono tutte le principali. Perciò entrare con noi deve essere una scelta di campo da parte del consulente: lavorare nell’interesse del cliente. Se non si parte da questo presupposto, non si va da nessuna parte. Stiamo, inoltre, lavorando molto sui giovani e siamo tra i pochi a farlo. Ma qual è il problema dei giovani? Che è molto difficile affermarsi, soprattutto nei primi anni di carriera, perché c’è tantissimo da sapere, da imparare: ci sono una parte tecnica e una commerciale».

Non avete pensato di essere polo aggregante?

«È sicuramente una terza via di crescita, che non abbiamo ancora del tutto attivato, ma non la escludiamo. Potremmo fare una divisione per i consulenti indipendenti che operano solo con la
consulenza a parcella: l’idea è rivolgersi alle Scf e inglobarle all’interno di questa divisione. Si tratta di un mondo nuovo, che sta ancora tentando di capire le proprie dinamiche. Secondo noi, come sim indipendente da gruppi bancari e assicurativi, potremmo essere un punto di riferimento per le Scf, ovviamente sottostando a tutti i regolamenti del settore. Questa è una prospettiva che possiamo avere solo noi, anche se non è facile, perché le Scf oggi sono ancora fatte da pochissime persone, spesso integraliste. Se devo però guardare a un periodo un po’ più lungo, questa è una strada che possiamo e dobbiamo percorrere. Comunque, stiamo crescendo, non certo alla velocità che vorremmo, anche perché abbiamo una concorrenza che è molto più forte e potente di noi».